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«Svegliami a mezzanotte». Cosa c’è al di là del tentato suicidio

Un libro e una storia che raccontano il tentato suicidio dalla parte di chi rimane in vita, perché non ci è riuscito. Ma anche la storia di chi si è svegliato e ha dovuto ricominciare a vivere, a essere, moglie e mamma e scrivere di sé.

«Svegliami a mezzanotte» di Fuani Marino non è solo un libro che parla di suicidio, bensì è molto altro. È quel suicidio non riuscito, quel racconto postumo che è raro da leggere e vivere, fatto di pensieri messi nero su bianco.

Di cosa parliamo quando parliamo di suicidio 

Facciamo una piccola premessa: non esiste un’età specifica nella quale il suicidio avviene. Essendo un atto per lo più premeditato che prevede l’intenzionalità da parte del soggetto, è tuttavia raro che possa avvenire quando si è piccoli. Più si va avanti con la crescita, più le idee prendono forma nella mente dell’individuo. Questo, però, non è mai un evento improvviso che accade a un individuo proveniente da una situazione precedente di benessere. C’è chi dice che è l’epilogo di uno stato perturbato che ha accompagnato il soggetto per un certo tempo e verso il quale non si è intervenuti.

Lo studioso Edwin Shneidman, psicologo statunitense specializzato su questo argomento, si è focalizzato sugli interventi volti a salvare la vita degli individui a rischio. Secondo la sua concettualizzazione (1996), il suicidio è il risultato di un dialogo interiore e per prevenirlo è importante che l’operatore conosca bene il proprio impatto con il tema. Per far questo può porsi delle domande quali: ritengo che il suicidio sia un segno di debolezza? Reagisco con ricoveri e precauzioni di ogni genere di fronte a un’ideazione suicidaria?

È in questo momento che il paziente coglie il giudizio del terapeuta e capisce che, si può ridurre il dolore psicologico e renderlo più accettabile. Così facendo, ci si allontana dall’angoscia e dalle emozioni intollerabili e, invece che avvicinarsi alla morte, egli sceglierà di vivere (Tatarelli, Pompili 2009).

«E poi sono caduta, ma non sono morta»

Questa frase viene riportata dalla scrittrice più di una volta, e arriva dritta al petto e allo stomaco. I capitoli hanno un titolo loro che non lascia spazio a nessun tipo di immaginazione. «Ritratto della suicida da giovane» e «Anamnesi familiare», per esempio, raccontano l’infanzia e l’adolescenza della scrittrice vissuta nel caos, in una casa disordinatissima e sempre piena di giornali e libri. Qui i ricordi di pranzi di famiglia o cene di Natale tendono a sbiadire o, addirittura, proprio a pervenire nella sua mente. Racconta che i suoi genitori si odiavano e che la parola malattia è entrata dentro casa senza bussare, fin da quando allo zio è stata assegnata una diagnosi di schizofrenia.  In «Esordio», invece, iniziamo a conoscere la sua vita da adulta, fatta di innamoramenti, studi universitari, psicofarmaci da prendere sempre ad un orario preciso e mai fuori tempo. E ancora, visite con psichiatri differenti ed infine, la scoperta di essere incinta. In questo periodo Fuani Marino viene a conoscenza di due suicidi a lei vicini: quello di una ragazza del suo stesso liceo e quello del padre di un suo amico. Iniziamo a chiedere proprio a lei alcuni particolari.  

Intervista con l’autrice

In «Svegliami a mezzanotte» dice che questo libro è un tentativo di fornire prove e argomentazioni quando ad ammalarsi è la mente umana. Pensa di essere riuscita a trasmettere quello che voleva?

«Per molto tempo a raccontare il disagio psichico sono stati esclusivamente i medici, o comunque osservatori esterni. Le persone che vivevano i sintomi sulla propria pelle erano in una condizione di semi prigionia e perdevano ogni attendibilità. Per fortuna, dalla chiusura dei manicomi le cose sono cambiate e oggi è possibile trovare diverse storie di pazienti in prima persona. Sono trascorsi più di quattro anni dall’uscita di Svegliami a mezzanotte, e il solo fatto che io sia ancora qui a rispondere mi fa pensare di sì, che forse sono riuscita a trasmettere qualcosa».

Se dovesse descrivere la depressione con tre parole, quali utilizzereste e perché?

«Credo che sceglierei vuoto, assenza e dolore. Solitamente si tende ad associare la depressione alla tristezza, ma invece è molto, molto peggio. Uno stato d’animo difficile da far comprendere a chi non lo ha sperimentato su di sé e che forse sintetizzerei con la perdita totale di senso. Come se ci fosse uno scollamento da tutto ciò che amiamo e che ci dà piacere. Una condizione terribile».

Sempre nel suo primo romanzo si incolpa di aver utilizzato alcune espressioni nella sua vita che banalizzano e ridicolizzano il suicidio. Ad oggi, con tutto quello che il mondo sta vivendo, quanto pensa che il suicidio sia qualcosa che venga ancora banalizzato nella nostra società?

«Allo stesso modo in cui i disturbi psichici sono spesso sottovalutati e fraintesi, così anche le conseguenze di questi stessi disturbi lo sono e il suicidio è una di queste».

Verso la fine del libro sul suicidio

Nella postfazione c’è una riflessione di Fuani Marino sulla sua decisione di raccontare questa storia, la sua storia, senza nascondersi. Una riflessione che dovrebbe abbattere stereotipi e pregiudizi e aprire le porte ai tipi di trattamento possibili. Questa inizia con la parola coming out, perché tutti dovrebbero iniziare a fare coming out senza curarsi troppo delle reazioni altrui. Nascondere la testa sotto il cuscino, chiudersi la porta alle spalle a doppia mandata e far finta che tutto questo non sia mai successo, non risolve nessun problema. A far da spalla a Fuani Marino ci sono tanti scrittori, sociologi, artisti e tante persone del mondo culturale che hanno parlato di suicidio, ai quali lei fa ricorso per affrontare questo tema delicato. Alla fine, infatti, sembra quasi di avere una rassegna letteraria di libri e articoli che trattano questo tema.

In «Vecchiaccia», secondo romanzo, parla di dolore. Scrive che «ogni dolore non fa che renderci più fragili e impreparati ad affrontare il dolore successivo». Le va di approfondire questo tema?

«Solitamente ci raccontiamo che il dolore rafforza, come se fosse una sorta di allenamento emotivo. Credo invece che il più delle volte (e senza un adeguato sostegno psichico) una fragilità psichica pregressa non faccia altro che far emergere nuove fragilità».

Che cosa vuol dire essere un malato mentale nella società di oggi?

«Di certo qualcosa di diverso rispetto a cinquant’anni fa, quando non c’era pressoché alcuna possibilità di riprendersi. Sono cambiate le cure, i manicomi non ci sono più. Resta però un atteggiamento pregiudizievole nei confronti di chi soffre di un disturbo. La sensazione è quella di essere sempre sotto la lente e se tutti siamo immersi in una società della performance, chi è più fragile rischia di non sostenere questo peso».

Conclusioni

Questa storia è una storia di coraggio che supera i limiti e si spinge oltre in una società che, invece, tende sempre a preservare e preservarsi, come se mettersi a nudo fosse disumano. Ma di umano, invece, qui ci sono le parole di una persona che difende la salute mentale perché «purtroppo non esistono manifestazioni per chi ha disturbi psichici». Se scrivere è il solo mezzo utile per arrivare nelle case, se è la sola forma di espressione che si ha, allora che si scriva e che se ne parli.

Flavia Capoano

Psicologa, ospite di redazione.

Bibliografia

  1. Marino F. Svegliami a mezzanotte. Einaudi, 2019
  2. Marino F. Vecchiaccia. Einaudi, 2023
  3. Shneidman ES. Autopsia di una mente suicida. Giovanni Fioriti Editore, 2016
  4. Tatarelli R, Pompili M. La prevenzione del suicidio in adolescenza. Alpes Italia, 2009

Foto: di Flavia Capoano, «Svegliami a mezzanotte, libro di Fuani Marino», 2024

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