Introduzione
Ferocia, crudeltà, brutalità, furia, furore, aggressività, veemenza, impeto, irruenza, virulenza, sopruso, abuso, prepotenza, maltrattamento, sopraffazione, costrizione, violazione, stupro, persecuzione, oppressione, angheria, offesa, soperchieria, coartazione. Tutti sinonimi di violenza. La violenza non è solo un pugno, non è solo un brutto litigio o una spinta per strada. Parte da noi, dalla nostra testa, dalle nostre emozioni, e arriva nella società che cambia alla velocità della luce. Per capire questo mostro, dobbiamo guardarlo da tanti punti di vista: biologico, psicologico, compreso il modo in cui ci organizziamo come società.
Cervello in allarme, società in pericolo
C’è una parte del nostro cervello che si chiama amigdala, un nome un po’ strano ma che si può immaginare come la nostra sentinella delle emozioni (Panksepp, 1998). È lei che dà l’allarme quando siamo arrabbiati o impauriti. Essa se troppo reattiva e se in più abbiamo poca serotonina, sostanza che ci fa sentire calmi e felici, e per niente può farci esplodere. È come avere un antifurto che suona per ogni foglia che cade.
Poi c’è la corteccia prefrontale, che è un po’ il nostro direttore d’orchestra. È lei che ci aiuta a frenare gli impulsi, a pensarci due volte prima di fare o dire qualcosa di cui potremmo pentirci. Nelle persone che tendono ad essere violente, questa parte del cervello a volte fatica a funzionare come dovrebbe. È come se il direttore fosse un po’ distratto e l’orchestra suonasse a ruota libera, senza controllo. E non finisce qui.
Ci sono anche altre sostanze chimiche nel nostro corpo che giocano la loro parte. Poca serotonina, l’abbiamo detto, può renderci più impulsivi. Ma anche troppa dopamina che ci dà la carica e la voglia di cercare cose nuove, a volte ci spinge a correre rischi inutili. E il cortisolo, l’ormone dello stress, se è sempre alto, ci rende più irritabili, più pronti a scattare (Raine, 2008).
L’importanza della storia personale
Il nostro passato modella la violenza. Le cose che ci succedono nella vita, soprattutto quando siamo piccoli, lasciano un segno profondo. Sono un po’ come le radici di un albero: se le radici sono forti e sane, l’albero crescerà diritto, se sono state danneggiate, l’albero crescerà storto. Pensiamo ai traumi infantili. Un bambino maltrattato e che assiste a scene di violenza, è come se portasse uno zaino pieno di pietre pesanti per tutta la vita. Queste esperienze dolorose possono riemergere nell’età adulta, portando a comportamenti aggressivi, quasi come una reazione a catena. È un dolore che non si vede, ma che scava in profondità.
Anche il modo in cui impariamo a legarci agli altri, quello che i tecnici chiamano attaccamento, è fondamentale. Se da piccoli abbiamo vissuto in un ambiente instabile, senza sentirci davvero al sicuro e amati, è difficile imparare a gestire le emozioni. È come se non avessimo avuto gli strumenti per regolare la nostra temperatura emotiva, e così, anche una piccola delusione può scatenare una tempesta.
Poi ci sono i disturbi della personalità (ad esempio, il disturbo antisociale o borderline), che rendono ancora più difficile controllare gli impulsi e la rabbia. Non sono scelte, ma modi in cui la nostra mente, in certi casi, fatica a trovare un equilibrio, rendendo la violenza una tentazione più forte.
La violenza è intorno a noi: la società è come una culla (o trappola). La violenza non è solo una faccenda personale. Il mondo in cui viviamo, le regole non scritte, le ingiustizie, possono creare un ambiente dove la violenza trova terreno fertile per crescere. La povertà e l’emarginazione sociale sono un fattore enorme. Chi vive in condizioni di miseria, senza lavoro, senza opportunità, in preda alla disperazione, è più esposto alla violenza, sia come vittima che, purtroppo, come aggressore (Bowlby, 1969; Teicher, 2016).
Clima, crisi, click. La violenza nell’era del cambiamento
La frustrazione, la mancanza di speranza, possono far scattare qualcosa, spingendo le persone a scegliere strade estreme. Quando non si ha nulla da perdere, il confine tra giusto e sbagliato può diventare sfumato. E pensiamo ai cambiamenti climatici. Sembra una cosa lontana, ma anche il clima può alimentare la violenza.
Se l’acqua scarseggia, le persone sono costrette a migrare, e questo crea tensioni, scontri per le risorse, fino a vere e proprie guerre. È come una reazione a catena: il clima cambia, le risorse diminuiscono, e la gente lotta per sopravvivere. E poi c’è il mondo digitale, i social media. Sono uno strumento potente, ma a volte diventano un’arma. Il cyberbullismo, ad esempio, è una violenza che non lascia lividi sul corpo, ma che può distruggere l’anima di una persona, portando a depressione, ansia, ecc. I discorsi d’odio online non sono solo parole al vento, ma possono incendiare gli animi, alimentare il razzismo, la discriminazione, e spingere a gesti estremi.
La velocità con cui le notizie (vere o false) si diffondono può far sembrare la violenza normale, quasi accettabile. Le nuove facce della violenza: l’era digitale non perdona. Con tutti questi progressi tecnologici, la violenza ha imparato a mascherarsi, a trovare nuove vie per colpire. Non è più solo il pugno o la minaccia diretta, ma qualcosa di più sottile, che agisce sulla nostra mente. Il cyberbullismo, come dicevo, è una forma di tortura invisibile. Le vittime vengono bersagliate online, spesso da persone che si nascondono dietro un profilo falso, e questo attacco costante può lasciare cicatrici profonde e permanenti nell’anima.
I discorsi d’odio e la radicalizzazione online sono un’altra piaga. I commenti razzisti, sessisti, le minacce diffuse sui social, possono convincere persone fragili ad abbracciare ideologie violente, fino a compiere azioni terribili (Homer-Dixon, 1999; Hinduja, 2010).
Fermare la spirale dell’odio
È come se il web diventasse un terreno fertile per seminare veleno. E c’è la manipolazione psicologica. Dietro le quinte del web, ci sono algoritmi e strategie che sanno come giocare con le nostre emozioni, alimentando la frustrazione, l’aggressività, facendoci sentire sempre più arrabbiati e impotenti. È come se qualcuno, a distanza, tirasse i fili delle nostre sensazioni, senza che noi ce ne accorgessimo.
Possiamo fermarla? Certo che sì, non è il nostro destino. La violenza è un problema gigante, lo abbiamo capito. Ma non è qualcosa a cui dobbiamo rassegnarci. Possiamo e dobbiamo fare la nostra parte, agendo su più fronti, come una squadra. Educazione e prevenzione sono le armi più potenti. Insegnare ai bambini e ai ragazzi a gestire le emozioni, a risolvere i litigi con le parole e non con la forza è molto importante. Insegnare loro a rispettare l’altro, è come seminare dei semi buoni che daranno frutti di pace in futuro.
La collaborazione tra le istituzioni è fondamentale. Psicologi, insegnanti, forze dell’ordine, assistenti sociali: devono lavorare insieme, come un’unica grande squadra, per capire cosa c’è alla base della violenza e per fermarla. Nessuno può farcela da solo. E poi, servono politiche pubbliche che funzionino davvero. Investire nella scuola, nella sanità, nel dare opportunità di lavoro a tutti, può costruire una società più giusta, più serena e più inclusiva.
Quando le persone hanno speranza, quando si sentono parte di una comunità, c’è meno spazio per la violenza. La violenza è un fenomeno complesso, è vero, con radici che affondano nella nostra biologia, nella nostra psicologia e nel modo in cui viviamo insieme. Ma non è un destino segnato. Capire da dove nasce e agire con intelligenza può davvero fare la differenza per costruire un mondo più giusto e sereno per tutti (Sen, A. 2009; Pariser, 2011).
Considerazioni
La violenza fa paura, ma non è un mistero. È qualcosa che possiamo imparare a riconoscere, capire, affrontare. Non è solo colpa di chi la compie, ma spesso anche di un contesto che non ha saputo offrire ascolto, cure, possibilità. Per questo ognuno di noi può fare la differenza: con una parola gentile, con l’educazione, con la capacità di fermarsi e di mettersi nei panni dell’altro. La violenza non è inevitabile. È una strada che si può scegliere di non percorrere e aiutare gli altri a fare lo stesso. Serve coraggio, ma soprattutto serve umanità.
Antonio La Daga
Bibliografia
- Bowlby, J. (1969) Attachment and Loss, Vol. 1: Attachment. Attachment and Loss. New York: Basic Books. https://archive.org/details/attachmentlossvo00john
- Homer-Dixon, T. F. (1999) Environment, Scarcity, and Violence. Princeton University Press. https://press.princeton.edu/books/paperback/9780691089799/environment-scarcity-and-violence.
- Hinduja, S., & Patchin, J. W. (2010) Bullying, cyberbullying, and suicide. Archives of Suicide Research, 14(3), 206-221. https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/20658375/.
- Panksepp, J. (1998) The Foundations of Human and Animal Emotions. Affective Neuroscience. Oxford University Press. https://academic.oup.com/book/53534.
- Pariser, E. (2011) What the Internet Is Hiding from You. The Filter Bubble. Penguin Press.
- Raine, A. (2008) From genes to brain to antisocial and violent behavior. Current Directions in Psychological Science, 17(5), 323-328.
- Sen, A. (2009). La democrazia degli altri. Mondadori.
- Teicher, M. H. & Samson, J. A. (2016) The effects of childhood maltreatment on brain structure and function—psychiatric implications. Annual Research Review Journal of Child Psychology and Psychiatry, 57(3), 220-241.
- Wilkinson, R., & Pickett, K. (2009). Why More Equal Societies Almost Always Do Better. The Spirit Level.Allen Lane.
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