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I bambini e la guerra

Il tema dei bambini in tempo di guerra, oggi tornato attuale, è stato particolarmente sentito nel secolo scorso durante la Seconda guerra mondiale. Una pionieristica esperienza di accoglienza e asilo nell’Inghilterra degli anni ’40 ci ha lasciato una grande eredità per la sua efficacia e validità. Un'eccellente opportunità sia nell’ambito dell’osservazione diretta dell’infanzia in un drammatico periodo di vita, che in quello della cura.

La guerra come trauma

In un periodo di guerra, come quello presente, è necessario rivolgere il nostro pensiero e la nostra riflessione ai soggetti maggiormente fragili e frangibili: i bambini.

L’impatto psicologico della guerra è devastante per tutti gli individui, ma è particolarmente forte su soggetti vulnerabili e immaturi come i bambini. Il naturale bisogno dei bambini di attaccamento, di sicurezza, di stabilità fisica e affettiva non può essere soddisfatto nei periodi di guerra, con conseguenze psicologiche durevoli. Le condizioni di guerra privano, infatti, i piccoli di quell’ambiente sereno e protetto in cui poter compiere le proprie necessarie esperienze di crescita e costruire la propria vita.

Attacchi aerei, bombardamenti, sfollamenti, separazione dai luoghi e dalle persone più care, abbandono o perdita di figure significative e distruzione della propria abitazione divengono, in tempo di guerra, vicende ordinarie con cui imparare a convivere. «Il trauma non è l’evento, ma l’effetto sul bambino». (Rachel Calam – docente emerito dell’Università di Manchester – Conferenza presso Anna Freud Centre del 5/12/2023 dal titolo: Traumi infantili, guerre e conflitti).

Effetti negativi nei bambini

Il primo effetto negativo, comune a tutti i bambini, è la mancanza di ogni forma di speranza per il futuro, insieme a una sensazione perenne di allerta. Altri diffusi effetti riguardano l’oscillazione fra iper e ipoeccitazione: da un lato irrequietezza, irritabilità e rabbia, dall’altro calma, sonno, lentezza e chiusura relazionale. E inoltre angoscia, insonnia, incubi, inappetenza, assenza di gioco, problemi di concentrazione, frequenti dolori di stomaco e di testa, enuresi, improvvisa balbuzie o mutismo. Infine, la percezione di non sentirsi mai al sicuro, anche se si è in salvo. Forse è la convinzione di non esserlo mai più, perché ciò che si è provato assume una consistenza duratura e invalidante.

Al giorno d’oggi, sono sempre più numerose le organizzazioni internazionali e i team di specialisti che supporto psicologico ai minori e alle loro famiglie nei territori teatro di guerre. Essi offrono interventi concreti e cercano di limitare le risposte emotive traumatiche.

Il contributo di Anna Freud

Nel luglio del 1940, la Germania nazista aveva dato inizio alla cosiddetta battaglia d’Inghilterra. Una campagna di guerra combattuta nei cieli intorno a Londra con l’intento (poi fortunatamente non riuscito) di invadere l’isola. A partire dal mese di settembre la città fu colpita da fitti bombardamenti giornalieri. Le perdite umane furono, nel complesso, limitate, grazie alla presenza di numerosi rifugi sotterranei; tuttavia, migliaia di famiglie rimasero senza casa.

Dal 1941 al 1945, l’agenzia americana Foster Parents Plan for War Children offrì ad Anna Freud, figlia del celebre Sigmund, già nota per l’istituzione di opere educative per l’infanzia, un copioso sussidio per l’attivazione di tre strutture residenziali nella città di Londra e nelle vicinanze.

Si trattava delle famose Hampstead Nurseries, in cui furono accolti bambini di diverse età (da pochi mesi fino a dieci anni) appartenenti a famiglie molto povere. L’intento era di rendere meno traumatica l’esperienza bellica. Duecento bambini ne beneficiarono. Molti di loro avevano già vissuto in rifugi sotterranei nei mesi precedenti. O erano stati allontanati dalle famiglie a causa dei padri in guerra e delle madri lavoratrici, non disponibili o disperse. Erano privi di altri parenti.

Si trattò di un’esperienza unica nella storia. Non si era, infatti, mai verificato che si potesse procedere all’osservazione diretta delle reazioni e dei comportamenti infantili in un periodo di guerra. E allo stesso tempo offrire supporto psicologico e medico. Se rintracciati, anche i genitori furono ospitati nelle strutture; l’intento dell’organizzazione era anche quello di concludere il percorso con il ricongiungimento alla famiglia di origine.

Bambini terrorizzati

Anna Freud e Dorothy Burlingham, sua stretta collaboratrice e amica, si ritrovarono di fronte a bambini terrorizzati dagli attacchi aerei. Erano inibiti, avevano ritardi nel linguaggio e nell’autonomia generale ed erano privi del conforto della propria famiglia. Le dottoresse con le loro cure li protessero da deviazioni e patologie della crescita. Essi vi giunsero pieni di paura, ma entrarono lentamente in un iter evolutivo più naturale (Burlingam, 1972). 

Vi era, inoltre, uno staff composto da diverse figure specializzate e con lunga pratica: medici, infermiere, educatori, psicologi.

Il progetto, attraverso la strutturazione di un ambiente e di un clima familiari, permise alle nurseries di non somigliare per nulla a degli orfanotrofi o a dei ricoveri. I bambini venivano, infatti, suddivisi per età in piccoli gruppi di massimo 5 unità, affidati a una giovane bambinaia o maestra che prestava loro cure materne. Anna Freud dichiarava che: «Ripetute esperienze dimostrano l’importanza di introdurre questo rapporto sostitutivo della madre entro la vita di un asilo residenziale» (Burlingam, 1972).

La separazione dei bambini dalla madre

Molte sono le rilevazioni degne di nota riportate da A. Freud nei suoi testi dedicati alle Hampstead nurseries. Tra esse vi è la costante e persistente ricerca di una figura materna a cui attaccarsi, in assenza della vera madre. Poteva trattarsi di una bambinaia, di un’infermiera o di un’assistente, ma anche di un fratello, una sorella, un compagno di gioco o altri coetanei.

Tuttavia, i bambini cambiavano continuamente attaccamento, sempre pronti a legarsi a qualcuno, ma altrettanto delusi in ogni nuovo affetto/legame. “Il bambino è tanto più portato ad aggrapparsi quanto più è intimamente convinto che la separazione si ripeterà» (Burlingam, 1972). Madri surrogate e compagni di gioco non avrebbero mai potuto soddisfare i suoi bisogni e desideri profondi.

Ciò a dimostrazione del fatto che il trauma di essere separati dalla madre, come diceva A. Freud, era per i bambini un’esperienza assai più drammatica del vedere la propria casa distrutta dalle bombe.

Dominique Tavormina

Bibliografia

  1. Becchi Egle: Anna Freud – Infanzia e pedagogia. Editrice Morcelliana, Brescia, 2021;
  2. Burlingham Dorothy, Freud Anna: Bambini senza famiglia. Casa editrice Astrolabio Ubaldini, Roma, 1972;
  3. Burlingham Dorothy, Freud Anna: War and children. Medical War Books, New York, 1943.

Foto: Envato Elements

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