La depressione nella cultura cristiana medievale era giudicata come una malattia dell’anima (morbus animae) causata da Satana, tanto che Dante collocò gli accidiosi nell’Inferno, insieme agli iracondi. Il Poeta li immerse nella palude dello Stige: “neanche si vedono, sotto la melma, ma se ne intuisce la presenza dal gorgogliare dell’acqua” (If VII 123)1. L’Accidia è un torpore dell’anima e della mente, misto alla malinconia ed alla noia che non permette di agire.
L’accidia, l’indolenza, l’inattività, la pigrizia soprattutto quella spirituale, l’abulia, l’indifferenza, la rinuncia alla vita, alla salvezza dello spirito, all’istinto vitale erano visti come peccati mortali. La morte dello spirito coincideva con l’impurezza dell’animo e l’accidia con relativa depressione il frutto del peccato, l’espiazione per una condotta empia e sacrilega. Il dono della vita doveva essere ripagato con comportamenti di riconoscenza a Dio, in un cammino di spiritualità lontano dal male e dal peccato.
Nella morale cattolica cristiana, l’accidia è uno dei sette vizi (o peccati) capitali. è la negligenza all’esercizio della virtù, ostacolo alla necessaria glorificazione dell’anima. L’accidia, o acedia, è l’avversione all’operare, mista a noia e indifferenza e pigrizia. Nell’’etimologia classica la parola deriva dal termine dal greco ἀ + κῆδος, sinonimo di indolenza e dal latino volgare acedia (Wikipedia).
La psichiatria medievale era intrisa di demonologia e spiritualità. Mentre i medici si occupavano delle terapie fisiche, i teologi esaminavano le “malattie dell’anima”. I temi religiosi della dannazione e della salvezza continuarono a influenzare la valutazione diagnostica della depressione anche nei secoli successivi, fino a tutto il 17°.
La causa dell’accidia
La malattia colpiva, in modo particolare, i monaci, persone dalla vita solitaria e reclusa ed era attribuita all’influenza malefica del “diavolo di mezzogiorno” o, a volte, al peccato originale. Il mondo viene visto, nell’ottica cristiana, come un luogo di possibile perdizione. L’esistenza terrestre come una prova purificatrice, una valle di lacrime la cui traversata porterà alla felicità eterna. Il diavolo tentatore turba la vita degli uomini fin dal peccato originale causando il male nell’anima, nel fisico e nella mente.
L’accidioso è preso dal “demonio meridiano”, chiamato “Keteb” (Wikipedia) e assalirebbe, nella tradizione cristiana dell’epoca, il monaco a metà giornata, dopo mezzogiorno con la tentazione della lussuria, del potere o della ricerca del piacere. Il demone colpisce nelle ore più calde della giornata che fin dall’antichità erano considerate pericolose per il sole e il caldo. L’orario ci riporta all’attuale “controra” pomeridiana, all’ozio e alla pennichella postprandiale. È facile in tale momento della giornata, abbassare la guardia, rilassarsi e godere di una pausa, con un breve sonnellino e la complicità della calura. Per poi riprendere le attività della giornata. Ma se ci facessimo ingolosire dall’ozio e dal riposo potremmo essere tentati dal demone dell’accidia. Almeno secondo gli antichi religiosi.
L’accidia monastica
Lo studio dell’accidia monastica è legato soprattutto al nome di San Giovanni Cassiano (365-435), sacerdote e fondatore di monasteri; commemorato santo sia dalla Chiesa cattolica che dalla Chiesa ortodossa. Egli non considera l’accidia una malattia fisica legata alla bile nera, come la malinconia, ma un peccato indotto dal diavolo. Essa riguarda anzitutto il disgusto per i beni spirituali e si può accostare l’accidia al taedium vitae pagano. Però se togliamo il contesto cristiano, l’accidioso somiglia molto al depresso: ecco infatti come Cassiano descrive l’azione del demone dell’accidia:
“Non appena questo male si è insinuato nell’animo del monaco vi produce l’avversione per il luogo, il fastidio per la cella e perfino la disconoscenza e il disprezzo per i fratelli che vivono presso di lui o lontani da lui, come se fossero dei negligenti e delle persone poco spirituali. Lo rende inoperoso e inerte di fronte a tutti i lavori da eseguire dentro le pareti della sua cella, e non gli consente di risiedere nella cella e di attendere alla lettura. Egli si lamenta assai di frequente di non aver conseguito alcun profitto; deplora e si rammarica di non ricavare alcun frutto finché rimarrà legato a quella comunità” (Minois, 2005).
Probabilmente la rigida vita religiosa, l’isolamento, la quotidiana introspezione spirituale, la negazione dei bisogni naturali e il pesante senso di colpa contribuirono a rendere i monasteri dei focolai di accidia, tristezza e depressione.
Il rischio di suicidio e l’accidia
Quando l’accidia assale e pervade l’uomo, la tristezza e la disperazione prevalgono in una vita trascorsa nella morte spirituale dell’ozio. Possono nascere così pensieri di autonocumento, colpa e depressione. Ancora una volta è il diavolo l’artefice del tormento dell’anima e di suggerimenti insani di espiazione e liberazione dalla sofferenza. Essi stimolano propositi distruttivi e possono indurre ad atti violenti e al suicido. L’anima vive nel peccato, muore nella colpa e si danna nell’inferno.
La terapia: “Ora et labora”
Prega e lavora (ora et labora). Era questo il motto dei monaci benedettini che, durante la loro giornata, non dovevano avere mai momenti di ozio, perché oziare era considerato la causa di tutti i vizi dell’uomo. La Regola benedettina con le sue esigenze di ordine, di stabilità, di sapiente equilibrio fra preghiera e lavoro, si impose ben presto a tutto il monachesimo occidentale. Essa fu seguita in tutti i monasteri europei. Composta nel 540 da San Benedetto a Montecassino rappresenta tutt’ora un comportamento ideale seguito anche da coloro che pur non facendo parte della Chiesa, fanno molta attenzione alla vita spirituale2.
I rimedi per contrastare l’accidia erano la lotta contro l’ozio, la preghiera e il lavoro senza eccessi, poiché in questo caso il diavolo era in agguato. La dieta alimentare, le varie erbe e gli amuleti prescritti contro gli spiriti maligni erano altri rimedi pagani.
Considerazioni
Nel medioevo e ancora per molti secoli, i malati mentali furono considerati con sospetto. Se il medico non riusciva a trovare la causa della malattia e le terapie erano inefficaci, si pensava all’opera del demonio o ad una possessione diabolica. Si ricorreva allora all’esorcismo e al giudizio del tribunale ecclesiastico. Nella cultura medievale, intrisa di religione, superstizione e ignoranza scientifica l’accidia, l’ozio e la relativa tristezza venivano diagnosticate come malattia ad opera del Male.
La stessa accidia, come l’apatia, l’abulia, l’astenia, l’incapacità a provare sentimenti positivi sono solo alcuni sintomi della malattia del secolo: la depressione. Il depresso non è per sua scelta o colpa apatico, indolente e senza forza fisica e psichica, né è tantomeno vittima del diavolo. Ha difficoltà a lavorare e a vivere non per mancanza di volontà o cause sovrannaturali. Il suo disturbo, la sua sofferenza e depressione sono dovute, secondo la moderna medicina, a cause biologiche, psicologiche e sociali. Non si può far correre chi ha le gambe rotte.
Infine, la pigrizia, quando è una scelta di vita negativa dell’uomo flemmatico può essere una sofferenza psichica che ne infiamma altre. L’accidia può essere paragonata al diabete: una malattia che ne provoca altre. Chi non riesce più a provare stupore e meraviglia è già come morto e i suoi occhi sono incapaci di vedere (Albert Einstein).
Maurilio Tavormina
Bibliografia
Minois G. Storia del mal di vivere: Dalla malinconia alla depressione. Edizione Dedalo, Bari, 2005.
Sitografia
- Dante Alighieri. La divina Commedia. Inferno La discesa agli iracondi, Canto VII, 123 https://divinacommedia.weebly.com/inferno-canto-vii.html
- Ora et labora – https://www.repubblica.it/dossier/economia/la-rinascita-di-norcia/2022/09/21/news/ora_et_labora_una_regola_valida_nei_millenni-366642284/
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