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Suicidi in carcere. Susan protestava per incontrare suo figlio

In Italia aumenta il tasso di suicidi. Parallelamente se ne registra un incremento nei reparti interni agli istituti di detenzione che ospitano persone con problematiche di depressione o, genericamente, di salute mentale.

Ricordiamo in questo articolo il caso particolare di Susan Smith, sia per il clamore mediatico che ha scatenato, sia perché ha drammaticamente evidenziato la carenza di personale specializzato, unico in grado di assistere questi pazienti in carcere.

I dati dei suicidi in carcere

Sono stati pubblicati i dati dei suicidi in carcere. Risulta che in Italia nel 2023 si sono registrati ben 68 suicidi di detenuti, il numero peggiore dal 1992. Confrontando i tassi tra Italia, Europa e Stati Uniti si osserva un valore mediano di 7,4 suicidi l’anno ogni 10000 detenuti. Negli Stati Uniti, fino a 30 anni, fa il tasso di suicidi è stato simile a quello che oggi registriamo in Europa, ma sono partiti da numeri molto più alti. La svolta c’è stata quando il Governo statunitense ha voluto istituire, sul modello europeo, un ufficio ad hoc per la prevenzione dei suicidi in carcere. Fu reclutato uno staff di oltre 500 persone incaricate della formazione del personale penitenziario.
È stato grazie a questa iniziativa che in 25 anni i suicidi si sono ridotti del 70%. In Italia il tasso di suicidi è stato pari a 10 casi ogni 10000 detenuti per salire, nell’ultimo anno, a 11,2, livello che ancora mantiene. (ISTAT, 2024). Ricordiamo qui il caso di Susan Smith.

Morire in carcere

Susan Smith, suicida, è stata vittima del degrado del nostro sistema carcerario. Susan era una donna di origine nigeriana incarcerata alle Molinette di Torino. Aveva iniziato uno sciopero della fame e della sete per chiedere di poter incontrare suo figlio malato. Si trattava di un bimbo di quattro anni, con gravi problemi di salute, che aveva bisogno della sua mamma. La donna non lo poteva incontrare da circa un anno. A Susan mancava tanto quel bimbo indifeso e sapeva di non poter più vivere lontano da lui. Susan era stata rinchiusa in carcere a Torino, la stessa struttura in cui si erano già registrati ben sei suicidi in pochi mesi. Nessuno si è mosso per cercare di rispondere alle pressanti richieste di attenzione della donna e nemmeno ha cercato una soluzione possibile, compatibile con la pena carceraria. Susan si è lasciata morire di fame e di sete, sola, in una cella videosorvegliata, riservata a persone depresse a forte rischio suicidario o disturbi psichici. Persone da sorvegliare di continuo.

Era un problema psichiatrico?

Ma il suo vero problema, definito psichiatrico, era proprio quello sciopero che Susan aveva iniziato da poche settimane per protesta. Una agente che la osservava al monitor si è accorta in piena notte che qualcosa non andava. Quello sciopero della fame e della sete iniziato dopo la conferma in Cassazione delle prime due sentenze che avevano condannato Susan per tratta e per immigrazione clandestina. Una sentenza che lei, donna nigeriana a sua volta vittima di violenze e di infinite forme di sfruttamento, aveva vissuto con rabbia e stupore e sempre contestato. Poi si era depressa, al punto che le era stato riconosciuto un forte rischio suicidario. Rischio che la obbligava nel reparto di psichiatria presente nello stesso carcere. Ma senza poter fruire di alcun tipo di cure. Solo di una cella con una telecamera che l’inquadrava di continuo. Ma nemmeno questa è valsa a salvarle la vita.
Quello di Susan è stato l’ennesimo suicidio in un carcere italiano dove, in solo sei mesi si sono tolti la vita ben 39 detenuti … Senza contare il numero incalcolabile di tentativi non riusciti. Un numero che ha fatto seguito a quello enorme già registrato negli anni precedenti.

Quali le cause del suicidio in carcere

Certamente una prima causa va ricercata nell’essere rinchiusi in celle sovraffollate e fatiscenti, come denunciano da anni i garanti dei detenuti e le associazioni di volontariato. Ma nei reparti di psichiatria in carcere manca il personale. Il Ministero, infatti, recluta solo le guardie carcerarie che, a loro volta esasperate e senza adeguata formazione, si limitano a custodire i detenuti. Mancano educatori, psicologi, psichiatri, infermieri e riabilitatori. In queste condizioni non c’è possibilità di avviare alcun programma di recupero sociale, che pure la legge imporrebbe al nostro sistema carcerario. Manca anche la possibilità che il servizio sanitario nazionale possa sopperire e garantire un’adeguata copertura di quei reparti speciali, a causa delle gravi carenze di personale. Problema atavico di cui soffre l’intero sistema assistenziale, inclusi quelli destinati a cura e prevenzione sul territorio.
Tranne qualche esempio isolato, ci si imbatte, più frequentemente, in pestaggi e violenze da frustrazione che in programmi di formazione al lavoro. Così come programmi di reinserimento sociale veramente efficaci. I detenuti, e primi tra questi anche quelli con disturbo psichiatrico, sono in galera per essere puniti e non devono intralciare il lavoro degli agenti di custodia. Questa è, in fondo, la convinzione di tanti decisori (politici e amministrativi) e di gran parte della gente comune. Essi ignorando le vere condizioni di vita di questi sventurati sostengono quelle aberranti tesi punitive.

Cosa è successo a Susan?

Può così capitare che una donna come Susan possa morire in carcere a seguito di una sacrosanta protesta. Senza che nessuno, con un minimo di reale competenza, possa ascoltarla o parlarle, o fare qualcosa per poterla aiutarla a rivedere suo figlio.
E scopriamo, increduli, che bastano poche settimane senza toccare cibo e acqua per morire di stenti. Ma intuiamo anche che ci vuole grande determinazione per lasciarsi morire così. Questo tipo di sofferenza non dovrebbe essere sottovalutata in un paese che vuol definirsi civile e dovrebbe spingere i responsabili ad avere più attenzione. È necessario andare con più frequenza in carcere a visitare i detenuti che protestano. Bisogna controllare la qualità delle strutture e verificare il lavoro di tutti i profili professionali del personale in servizio. Infine, è necessario verificare sempre se risponde al vero, quanto ripetutamente denunciato dalla stampa, che persiste uno stato di abbandono nei confronti dei detenuti sofferenti psichici. Bisogna, inoltre, verificare se essi dovevano effettivamente essere incarcerati in quel tipo di struttura. Si giustifica allora la rabbia dei Garanti e dell’avvocato di Susan che si sono lamentati di non essere stati informati sulla gravità delle condizioni di salute della detenuta. Molte volte, in un carcere, la differenza è fatta anche dall’ascolto, dal vedere una mano tesa, dal sentire un poco di sincero calore umano.

Considerazioni finali

Non si tratta di voler colpevolizzare gli addetti alla sorveglianza o chicchessia, ma si vuole evidenziare un problema gigantesco: il suicidio e la qualità della vita in carcere.
Le condizioni di vita dei detenuti e particolarmente dei pazienti psichiatrici, oltre tutti coloro che sono rinchiusi in un’istituzione totale, privati della loro libertà, sono la cartina al tornasole della civiltà di un popolo.

Walter Di Munzio

Bibliografia

  1. Bianchi A: Carcere e rieducazione. Feltrinelli, Milano. 2023.
  2. Di Munzio W.: Voleva solo incontrare suo figlio, articolo sul quotidiano “Le ore di Cronache”, Salerno. 2023.
  3. ISTAT: I suicidi in carcere in Italia, Roma. 2024
  4. Pompili M.: Il rischio di suicidio, valutazione e gestione, Cortina Editore, Milano. 2022
    Foto: Envato Elements
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