L’opera di Sebastião Salgado ha un valore inestimabile per le Medical Humanities. La sua fotografia non è solo documento estetico o testimonianza storica: è un laboratorio visivo di umanità, un atlante iconografico del dolore, della speranza e della dignità. In un tempo in cui la medicina rischia di ridursi a procedure tecniche, Salgado ricorda ai terapeuti – medici, psicologi, educatori – che curare è prima di tutto vedere.
La biografia di Sebastião Salgado: uomo che ha vissuto la sua fotografia
«Ogni volta che premo l’otturatore, so che sto costruendo una storia collettiva». Si presenta così Sebastião Ribeiro Salgado (1944–2025), nato ad Aimorés (Brasile), studi di economia e statistica prima di dedicarsi interamente alla fotografia nel 1973. Ha lavorato per agenzie come Sygma, Gamma e Magnum e Contrasto, viaggiando in oltre 120 paesi, conservando una propria autenticità creativa. Sebastião Salgado non è stato solo un fotografo: ha vissuto ciò che ha fotografato, con un’attenzione estrema al volto dell’altro. Nei suoi progetti (da Workers a Migrations a Genesis) ogni volto è ritratto in modo tale da restituire dignità, presenza, umanità.
Il poetico Sebastião Salgado: «Guarda, questo è il mondo. E questo sei anche tu»
La fotografia poetica in Sebastiano Salgado è una costruzione visiva basata sul bianco e nero astratto per elevare la realtà senza deformarla. È frutto dell’eredità del mestiere del fotoreporter globetrotter: le narrazioni senza colore hanno il colore del vissuto emozionale che provocano nell’osservatore. Le sue immagini non abbelliscono il dolore: lo mostrano con rigore poetico. In Genesis, ad esempio, la natura si fa testo sacro. In Workers, il lavoro manuale diventa rito arcaico. Migrations, la disperazione si apre a uno spazio di dignità. Tutto questo è poesia, ma senza lirismo vuoto. È una poesia radicata nella materia, nel fango, nel sudore, nella carne. Mai estetismo fine a sé stesso.
Il drammatico senza spettacolarizzazioni
Sebastião Salgado ha raccontato l’indicibile: carestie, esodi, fame, malattie, tragedie umane troppo grandi per stare in una pagina di giornale. Ma il dramma non è mai spettacolo: Salgado evita il voyeurismo, optando per un estremo rispetto etico. Le immagini oscillano fra testimonianza e arte: come se ci fosse un tacito accordo fra fotografo e soggetto: essere visto e pertanto ripreso, ma senza essere violato.
Le composizioni sono teatrali, con chiaroscuri potenti che ricordano disegni epici. Le miniere di Serra Pelada, ad esempio, diventano un coro tragico: migliaia di uomini appesi nel fango come formiche, spinti da una fame più grande di loro.
Sebastião Salgado descrive numerose tragedia epocali, di quelle che lo Zeitgeist occidentale neocolonialista e post-industriale fa spesso finta di non accorgersi.
Le immagini che ha prodotto sono il luogo dove l’invisibile diventa non solo visibile ma tangibile, quasi palpabile, e lascia una grande segno non solo visivo ma soprattutto semantico. Spesso si ha l’impressione di essere dentro la scena ritratta. Questa scelta stilistica e la tecnica di sviluppo grafico delle fotografie annullano la sensazione sempre un po’ presente dell’eidetico- Non si guarda per compatire, ma per comprendere il momento presente di quei corpi arrampicati nel fango, monumenti del lavoro e della sofferenza. Poi si può andare oltre: riuscire a osservare il volto che guida e sostiene quei corpi…
L’empatia di Sebastião Salgado: un volto non si cattura, si incontra.
Sebastião Salgado è uno di quei fotografi da prendere come gold standard in ambito di fotografia empatica: non si guarda per commuoversi di superficie, ma per essere trasformati. Ogni scatto è un ponte visivo ed emotivo tra lo spettatore e il soggetto. Lo fa senza parole, solo con luce, forma, composizione. Ma lo fa in modo potentissimo e spesso sembra dialogare con l’osservatore ponendo domande del tipo: «E tu, che fai? Che senti? Che scegli, adesso che sai?».
Salgado non chiede di piangere, ma di sentire. Di non passare oltre. Di fermarsi abbastanza da riconoscere un fratello, una sorella, un sé possibile in un’altra vita. La fotografia smette di essere arte o cronaca: diventa intuizione. Ogni volto ha una storia. Ogni ruga è una parola. La fotografia serve a non dimenticare
Sebastião Salgado nelle Medical Humanities: vivere il volto dell’altro per imparare a curare
Guardare i volti fotografati da Salgado è un esercizio clinico e spirituale insieme. Come non pensare a Emmanuel Levinas o al padre della fenomenologia, Karl Jaspers quando si parla del binomio clinica/volto. Il volto è il luogo dove, se si vuole, si può incontrare l’altro.
Le immagini di Salgado diventano così specchio e ponte, rivelazione e costruzione condivisa di senso. Il dinamismo culturale che stimola nei caregivers e nei professionisti della salute è quello del passaggio dal conoscere il paziente al riconoscerne il volto umano. Ciò costringe l’osservatore clinico o il caregiver a fermarsi, a sospendere il giudizio ed eventualmente accogliere. Nel lavoro sul diventare contenitori migliori, Salgado è un alleato formativo potente. Le sue immagini possono essere usate in percorsi di formazione alla relazione d’aiuto per:
- Educare all’empatia profonda e non reattiva.
- Allenare lo sguardo all’ascolto silenzioso.
- Sviluppare una sensibilità etica verso la sofferenza incarnata.
- Abituare a cogliere la dignità nel disordine, la bellezza nella fragilità.
- Contrastare la disumanizzazione nei contesti clinici e istituzionali.
Infine, le sue fotografie possono facilitare percorsi di consapevolezza e di riflessione nei pazienti: possono essere usate in percorsi di narrative medicine, di psicoterapia visiva o in contesti di gruppo.
In ogni scatto di Salgado c’è un possibile paziente, un terapeuta in crisi, un sopravvissuto che cerca ancora il senso. Nelle Medical Humanities, questa è forse la lezione più importante. Non dimenticare: non dimenticare il volto, la voce, il dolore, il sogno. Non dimenticare ma non credere di possedere: il pensiero filosofico di Sebastiano Salgado potrebbe sintetizzarsi cosi: «Non sono un artista. Sono un testimone».
Luigi Starace
Libri e progetti fotografici principali
- Other Americas (1986)
- Una delle sue prime opere importanti, documenta la vita rurale e indigena in America Latina tra il 1977 e il 1984.
- Sahel: L’Homme en détresse (1986)
- Realizzato per Médecins Sans Frontières, mostra la crisi umanitaria nel Sahel durante la grande carestia.
- Workers: An Archaeology of the Industrial Age (1993)
- Epico affresco del lavoro umano nel mondo, frutto di sei anni di viaggi attraverso più di 20 paesi.
- Terra (1997)
- Ritratto visivo dei contadini brasiliani senza terra (Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra – MST), con testi di José Saramago.
- Exodus: Humanity in Transition (2000)
- Documento struggente sulle migrazioni forzate e i rifugiati in oltre 40 paesi. Include anche Children: Refugees and Migrants.
- Africa (2007)
- Raccolta di immagini scattate in 26 viaggi in Africa tra il 1973 e il 2006.
- Genesis (2013)
- Un progetto durato otto anni, dedicato alla bellezza incontaminata del pianeta, per riscoprire “la parte del mondo ancora come era all’origine”.
- Amazonia (2021)
- Viaggio fotografico nella foresta amazzonica brasiliana e tra le popolazioni indigene, un’opera potente a difesa dell’ecosistema e della cultura autoctona.
YouTube – Mostre: Sebastião Salgado. Amazzonia. Museo MAXXI https://www.youtube.com/watch?v=2VANktoXR7c&t=145s&ab_channel=MuseoMAXXI
Foto: “Opere di Sebastião Sagado” fotocomposizione di Luigi Starace, 2025.