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La malinconia in Dante

Dante Sommo Poeta, Dante uomo, che manifesta la sua profonda umanità e anche la sua malinconia nei suoi versi del “Purgatorio”. Alcune riflessioni.

Su Dante, sommo Poeta, unico, modello e riferimento per tanti poeti delle epoche successive, tanto, molto si è scritto, forse tutto. Non è pertanto qui mia intenzione cercare ambiti di osservazione innovativi sulla sua poetica, ma solo di fare delle riflessioni su un aspetto della sua personalità che traspare dalla sua poetica e a cui ho sempre tenuto: la sua malinconia.

La malinconia è realmente fra i sentimenti umani forse quello più universalmente condiviso da parte di tutti: chiunque di noi ne ha esperienza diretta; ed anche Dante non poteva esserne da meno.

Nei canti XXIII e XXIV del Purgatorio Dante manifesta la sua umanità malinconica, proprio nella cantica più “umana” e connessa al quotidiano di ognuno di noi.

Restando l’Inferno (capolavoro nel capolavoro) la cantica della sofferenza atroce e dannata (e forse per questo intrisa di quel pathos che la fa elevare a sublimi livelli di condivisione della sofferenza umana e di altissima poesia), e il Paradiso la cantica del divino, a cui ambisce l’uomo, e della luce, di una luce che sprigiona quasi da ogni terzina e che traccia il senso del divino, “luce” dell’uomo come sua ambizione e obbiettivo.

Il Purgatorio invece, spesso cantica ingiustamente trascurata da una critica poco attenta, resta la cantica dell’uomo e vicina all’uomo con le sue debolezze e umanità, e forse per questo la più vicina a noi.

Incontro malinconico fra due vecchi amici –

Nel saggio “Dante, Poeta di Vita Patriarcale nella Commedia” (Vincenzo Tavormina, 1967) si sottolinea quanto il Poeta fosse << ammalato di tremenda malinconia, altrimenti non avrebbe potuto descriverci, nel modo come lo descrive, l’incontro con l’amico Forese Donati:

Lago di Costanza -Malinconia, in Dante

“sì lasciò trapassar la santa greggia

Forese, e dietro meco sen veniva,

dicendo: “Quando fia ch’io ti riveggia?”

“Non so” rispuos’io lui “quant’io mi viva;

ma già non fia ‘l tornar mio tanto tosto,

ch’io non sia col voler prima alla riva”

dove senti un sapore dolcissimo di cose lontane, desiderate e non avute e presto perdute>>.

Il Momigliano (Storia della letteratura italiana, 1936) ha affermato che << senza l’esilio, che gli fece conoscere il dolore e gli uomini e allargò sull’Italia e sul mondo il suo sguardo prima ripiegato su se stesso e sull’intera immagine di Beatrice, Dante non sarebbe stato altro che il più grande poeta del suo tempo>>. Inoltre, secondo il Davidsohn (Firenze ai tempi di Dante, 1929), <<l’uomo dallo sguardo profondo e penetrante lo crearono le angosce dell’esilio>>.

Queste osservazioni di qualificati dantisti ci fanno riflettere su quanto segue: cosa altro è l’esilio per Dante se non un’ulteriore manifestazione della sua umanità e vita vissuta fra le difficoltà?

Di conseguenza, è fonte di estrema malinconia lasciare la sua terra, i suoi cari, le sue cose, i suoi affetti: al suo caro amico, Forese Donati, dedica addirittura due canti nel Purgatorio, il XXIII e XXIV, in cui amicizia, empatia, ricordi e momenti comuni sono abilmente dipinti con schizzi pittorici degni della sua fama:

“ed ecco del profondo della testa

volse a me li occhi un’ombra e guardò fiso;

poi gridò forte: <<Qual grazia m’è questa ?>>

Mai non l’avrei riconosciuto al viso;

ma nella voce sua mi fu palese

ciò che l’aspetto in sé avea conquiso.

Questa favilla tutta mi raccese

mia conoscenza alla cangiata labbia,

e ravvisai la faccia di Forese.>>

Questi versi descrivono il piacere di rivedere un caro amico dopo tanto tempo, e nello stesso tempo celano la malinconia inaspettata di chi sa che il caro amico non è più in vita. E ancora Dante afferma:

<<La faccia tua, ch’io lagrimai già morta,

mi dà di pianger mo non minor doglia>>

rispuos’io lui, <<veggendola sì torta>>

Malinconia del racconto di Dante

I dialoghi fra i due amici proseguono con la voglia di raccontarsi in breve tempo quanto più ci si possa raccontare, parlando della moglie di Forese, della sua sorella Piccarda, di altri amici comuni là nell’oltretomba presenti (fra tutti, Bonaggiunta da Lucca), degli accompagnatori dello stesso Dante (Virgilio e, in quelle cornici, anche Stazio, poeta della tarda romanità che si era ispirato a Virgilio preso a modello nella sua “Tebaide”, e che avrebbe accompagnato Dante fino al suo passaggio al Paradiso).

Emblematiche, oltre che da tutti conosciuta, la terzina in cui Dante descrive se stesso, invitato da Bonaggiunta a confermare chi fosse:

“I’ mi so un, che quando

Amor mi spira, noto, e a quel modo

ch’è ditta dentro vo significando>>

Successivamente scorrono i dialoghi fra gli attori di questa scena familiare, in una sintesi di versi minima e profonda allo stesso tempo, ove ogni parola ha il suo peso e significato, per arrivare al già descritto saluto fra Dante e Forese, di struggente malinconia, di chi sa che non è davvero quantificabile programmare quando potersi rivedere, e che riporto nuovamente a simbolo di queste osservazioni:

… <<Quando fia ch’io ti riveggia?>>

<<Non so>> rispuos’io lui <<quant’io mi viva;

ma già non fia ‘l tornar mio tanto tosto,

ch’io non sia col voler prima alla riva>>

Pensiamo a quanti saluti abbiamo fatto a nostri cari amici, conoscendo il lungo periodo che sarebbe intercorso fino al successivo incontro: così potremo meglio compartecipare il sentimento che Dante descrive.

<<Dante nostalgico del passato, in quanto uomo patriarcale; e, in quanto uomo patriarcale, l’atteggiamento dominante del Poeta in veste di giudice è di condanna per i contemporanei e di assoluzione per la buona Firenze di una volta. … Il Poema è scritto; la missione di Dante è compiuta: non resta che offrirlo ai suoi concittadini, all’umanità intera, perché se ne nutrano e si ravvedano>> (Vincenzo Tavormina, “Dante, Poeta di Vita Patriarcale nella Commedia”, 1967).

Anche queste ultime osservazioni altro non sono che ulteriori evidenze dell’atteggiamento malinconico del Poeta, la cui poetica ha impregnato di sé nei secoli tutti coloro che si dedicano alla poesia, sia essi poeti che critici; nella Commedia Dante su vari livelli (quello letterale e descrittivo, quello introspettivo, quello ultraterreno) ha creato il Poema della vita dell’uomo, divenuto divino e immenso per la costante attualità che trasuda dai suoi cento canti (bibliografia n° 4 – 2020).

Giuseppe Tavormina

www.dottortavormina.it

Bibliografia

  • A. Momigliano, “Storia della letteratura italiana”, Ed. Principato, 1936
  • R. Davidsohn, “Firenze ai tempi di Dante”, Ed. Bemporad & Figlio, 1929
  • Vincenzo Tavormina, “Dante, poeta di vita patriarcale nella Commedia”, Ed. A. Vento, 1967
  • www.facebook.com/paginacriticaletteraria , 2020
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