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La famiglia problematica di “Little Miss Sunshine”

Un film sulla depressione e la famiglia problematica, ma raccontato con ironia e brio inusuali, parlando di depressione, suicidio, abusi di sostanze.

Prendete una famiglia problematica, padre, madre, due figli, un nonno e un cognato. Apparentemente tutto bene, una tipica famiglia americana alle prese con la quotidianità e con il desiderio di inseguire il sogno stesso americano che però non è più quello degli anni ‘70 ma si deve confrontare con la dura realtà del nuovo millennio. Una famiglia problematica tipica americana che però può essere l’archetipo di qualunque altra simile famiglia italiana o europea. Tutto ruota intorno alla figlia più piccola che partecipa per una casualità a un concorso agghiacciante per baby miss “american made”, chiamato Little Miss California.

Questa è una consuetudine tutta americana di far sfilare bambine piccole agghindate e vestite come piccole Miss o come piccole fotomodelle, con scene apparentemente ironiche e nello stesso tempo agghiaccianti e assurde per un paese cosiddetto evoluto. La componente familiare che a seguire si mette in moto (anzi in furgone…) per raggiungere la meta dove si terrà il concorso merita un approfondimento psicopatologico.

Attori e trama

Il padre (un Greg Kinnear ispiratissimo) si è impegnato tutto per raggiungere il suo sogno di pubblicare un libro di psicologia spicciola (e ovviamente fallimentare) per migliorare il benessere, concetto questo molto caro agli americani (ma non solo a loro).

La madre (Toni Collette, semplicemente perfetta) sembra apparentemente la più dipendente di tutte le figure familiari presenti nel film, ma a suo modo è la leader. È il collante che tiene unita la famiglia che altrimenti andrebbe per altre strade.

La figlia piccola (la magnifica Abigail Breslin) è l’emblema dell’ingenuità e della dolcezza, tipiche delle bambine americane che si trovano ad affrontare situazioni più grandi di loro con mezzi spesso adatti al contesto. Ma lei rappresenta l’entusiasmo, la voglia di competere, la voglia di raggiungere gli obiettivi.  Tutto ciò conferisce a questo personaggio una simpatia e una capacità di sorprendere positivamente lo spettatore.

Poi ci sono i tre casi più interessanti. Uno straordinario Alan Arkin interpreta il nonno, figura che potremmo definire affetta da un disturbo bipolare. Abusa di cocaina senza alcun problema, anche davanti a tutti familiari e va fiero del suo essere anticonformista e creativo. Ha presente che la sua è una vita che ha preso una direzione completamente sbagliata, rispetto a quelli che erano i suoi obiettivi primari (ma che conclude giustificandosi di “essere vecchio”).

 Il figlio maggiore (un magnifico Paul Dano), chiaramente disturbato e disadattato, ma dolorosamente consapevole di esserlo. Si è rinchiuso in un mutismo che verrà spezzato solo quando riuscirà ad entrare in aeronautica: ma il suo sogno verrà infranto dalla dura realtà della vita.

Un altro membro della famiglia problematica  

Il cognato, che ha appena tentato il suicidio perché il suo compagno lo ha lasciato in favore di un’altra persona.

Quest’ultimo personaggio, straordinariamente interpretato da un ispiratissimo Steve Carell, è appena uscito da una lunga fase depressiva che lo ha portato appunto a tentare il suicidio, fortunatamente non riuscito.

È proprio questo personaggio che presenta le sfaccettature più interessanti da un punto di vista psichiatrico.

Esse sono state rese in modo magistrale da un attore come Carell, in grado di recitare semplicemente muovendo un sopracciglio. Egli racchiude in sé tutto ciò che può essere definibile come uno stato depressivo alimentato dallo stigma (Aggarwal S et al – 2021) e dal fatto di non poter vivere liberamente la propria omosessualità, specialmente nei confronti del nucleo familiare. A tutto ciò si aggiunge il fallimento, evento stressante scatenante, non solo della relazione col compagno, ma anche dell’insuccesso come docente universitario. Vvorrebbe pubblicare un testo definitivo su Proust, ma questo gli è già stato anticipato da un altro docente universitario che, inoltre, si è fidanzato con il suo ex compagno. Il tentativo di suicidio messo in atto, in questa è una risposta di dolore mentale (Orsolini L et al – 2020), un atto per liberarsi da un peso insopprimibile e apparentemente incurabile: ma che non sarà così.

Il viaggio di questa famiglia problematica su questo scalcagnato furgone che deve essere avviato letteralmente “a piedi”. Le vicissitudini che tutti loro incontreranno su questo viaggio a loro modo iniziatico e relazionale per raggiungere la sede del concorso, farà emergere sicuramente le tensioni. Esse all’inizio sono latenti tra i vari membri della famiglia problematica, ma farà nascere anche un’unione inaspettata, che nessuno di loro si sarebbe mai aspettato.

Riflessioni sulla famiglia problematica

La presa di coscienza per chi soffrire di disturbi psichiatrici, sia sotto-soglia sia francamente clinici, è spesso dolorosa. Così come è dolente la necessità di poter contare che gli altri comprendano quello che stai passando per aiutarti in modo del tutto sincero e privo di secondi fini. Così come d’altronde succede non solo ai tre casi paradigmatici di questa famiglia problematica, ma in fondo a tutti.

La depressione per vari motivi è latente in alcuni di questi familiari e, come ho spiegato, si manifesta in altri. Questo è un film che non ha paura di raccontare queste tematiche difficili. Dall’uso di cocaina al disadattamento e alla depressione con ideazione suicidaria (Corrigan PW et al – 2017). Lo fa in modo brioso, divertente, con un ritmo sostenuto e un finale totalmente inaspettato, ma per una volta non sciacallesco e assolutamente appropriato: oltretutto tremendamente divertente.

Cineclub in psichiatria

Ho utilizzato questo film per un cineclub di reparto di psichiatria nel quale ho lavorato per poi farne una discussione interattiva con i partecipanti (pazienti e infermieri) che avevano assistito alla proiezione. Ebbene tutti hanno scovato in questa pellicola, più che aspetti negativi, principalmente gli aspetti positivi di relazione, alleanza, e lotta lo stigma. Non solo nei confronti della depressione, ma anche dell’omosessualità e dell’essere diversi. In qualche modo questo film con la sua ironia e con la sua leggerezza riesce ad andare al cuore del problema. Esso riesce a mostrarci in che modo i fallimenti, gli eventi stressanti, la serie di problematicità varie possano incidere sulla manifestazione clinica o sulla perpetuazione di quadri psicopatologici importanti (Goody SMG et al – 2017).

Ma al di là di questo, è un film che parla di legami, di rapporti umani, di relazioni, di empatia e compartecipazione. Parla di cose non dette che sedimentano, e soprattutto sul bisogno che ogni essere umano ha di essere ascoltato ed aiutato nei momenti di difficoltà.

Domenico De Berardis

Bibliografia

  •  Aggarwal S, Borschmann R, Patton GC. Tackling stigma in self-harm and suicide in the young. Lancet Public Health. 2021;6(1):e6-e7.
  • Orsolini L, Latini R, Pompili M, et al. Understanding the Complex of Suicide in Depression: from Research to Clinics. Psychiatry Investig. 2020;17(3):207-221.
  • Corrigan PW, Sheehan L, Al-Khouja MA, Stigma of Suicide Research T. Making Sense of the Public Stigma of Suicide. Crisis. 2017;38(5):351-359.
  • Goody SMG, Cannon KE, Liu M, et al. Considerations on nonclinical approaches to modeling risk factors of suicidal ideation and behavior. Regul Toxicol Pharmacol. 2017;89:288-301.

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