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Pandemia, una opportunità di cambiamento

La terribile pandemia che abbiamo vissuto potrà in futuro rivelarsi anche come una straordinaria opportunità di cambiamento e di innovazione. Questo se si riusciranno a cogliere le occasioni irripetibili di innovazione che sarà possibile introdurre dopo quando si ritornerà alla normalità prepandemica.

Il cambiamento di fine della pandemia

Siamo ormai alla fine della pandemia, con il suo corteo di sofferenza e di morte. Il coronavirus ci ha investiti proprio come accadeva, nei secoli passati, con le epidemie di peste, di colera, e più recentemente di spagnola e AIDS. Le epidemie hanno decimato nei secoli intere popolazioni e prodotto esiti gravissimi, in termini di fobie, stigma e diffidenza sociale. Hanno scatenato angosce collettive e strutturato pregiudizi, verso quelle popolazioni o quei gruppi di individui estranei alle culture locali e per questo più facilmente considerati “untori”.

Ogni epidemia, al suo superamento, ha creato però anche straordinari presupposti per la ripartenza. Ha determinato spesso modifiche negli stili di vita e, qualche volta, ha contribuito persino a fermare guerre ed a rivedere antichi pregiudizi.

La pandemia ci insegna

Sarà presto possibile, anche per noi, riflettere su alcuni insegnamenti che la pandemia ha elargito ad una umanità spaventata e confusa. Primo tra tutti la consapevolezza che non esistono confini geografici, muri o eserciti in grado di difendere frontiere così labili. Nemmeno alcune identità etniche fragili restano indenni se minacciate da una sorta di contaminazione esterna. Nessuno potrà in futuro considerarsi migliore di altri uomini o del resto dell’umanità. Abbiamo assistito in questi mesi al crollo di miti e convinzioni consolidate e, contemporaneamente, abbiamo scoperto di avere tante buone pratiche che, inconsapevolmente, già avevamo. Abbiamo anche verificato che abbiamo istituzioni che sanno essere efficaci e servizi non solo sanitari da valorizzare.

Tutto ciò proprio quando l’attività più diffusa sembrava essere quella di demolire, aggredire, criticare ad oltranza tutto e tutti, diffamando operatori e professionisti. Lo si faceva senza mai motivare le critiche o senza proporre valide soluzioni alternative. Ciò oltre a favorire tante istanze corporative, che non potevano sortire esiti positivi.

Il risultato ottenuto è stato quello di diffondere tra la gente, prima dell’epidemia vera e propria, una paura diffusa e paralizzante che ha portato ad un prevedibile blocco decisionale collettivo. Ciò ha prodotto, a distanza, uno stato di depressione collettiva. Questa è stato un sintomo anticipatore di quei disastri relazionali che abbiamo registrato ed ai quali hanno fatto spesso seguito comportamenti irresponsabili.

Molti, contratta l’infezione magari in forma asintomatica, hanno pensato irresponsabilmente di “evadere” dalle zone rosse per andare a far visita a parenti e amici. Il tutto senza rendersi conto che con tale comportamento diffondevano l’epidemia, facendo ammalare persone care nella forma più grave e pericolosa.

Due pregiudizi sulla pandemia

Le cose più importanti da ricordare in futuro, appena questa emergenza sarà superata (perché sarà certamente superata) sono almeno due, e sono quelle che esitano dal superamento di vecchi pregiudizi, rivelatisi senza un motivato fondamento.

Tali si sono rivelati, probabilmente perché nati e alimentati da odio sociale, interessi economici o semplicemente calcoli basati su comportamenti originati da egoismo. Quello stesso comportamento che ha ispirato tanti pregiudizi.

Il primo pregiudizio

È certamente quello basato sul “primato di alcune regioni” sul resto del paese (Di Munzio, 2021). È un’espressione inaccettabile sia se riferita ad una ideologia, sia se riferita alla qualità dei servizi erogati in una certa area. Alla pretesa capacità di organizzare bene i servizi alla persona, o servizi sanitari meglio di altri. Tutto ciò si è spinto fino alla decisione di investire nella sanità privata a scapito di quella pubblica. Idea che appare, alla luce dell’esperienza vissuta, particolarmente ingenua di fronte a un privato rivelatosi, in condizioni di emergenza sanitaria, incapace di organizzare risposte adeguate. Queste attività, a differenza di quelle programmate o di alta specializzazione – per le quali spesso la sanità privata spesso eccelle – sono prestazioni poco remunerative. Ma nei fatti, non è mai realmente esistita tale superiorità … e la pandemia lo ha dimostrato inequivocabilmente.

Alcune articolazioni locali del modello sanitario non si sono rivelate, alla prova dei fatti, migliori di quelle di altre regioni. Inoltre, si è rivelato fallimentare il voler organizzare la gestione della risposta sanitaria a dimensione regionale. Si è ottenuto così la destabilizzazione della capacità del sistema curante di rispondere in modo uniforme su tutto il territorio nazionale.

Il secondo pregiudizio

È stato quello di valutare le prestazioni sanitarie da un’ottica meramente “economica”, guardando solo alle difficoltà e ai ritardi nella loro erogazione. Ciò ha determinato negli ultimi dieci anni un irresponsabile ridimensionamento delle risorse destinate alla sanità pubblica. E si è arrivati a commissariare proprio le regioni in difficoltà, fino bloccarne il turn over. Questo ha rapidamente dimezzato il personale impegnato nell’assistenza, proprio dove sarebbe stato necessario rilanciare sia in termini di investimenti finanziari che ammodernare le attrezzature dei servizi. Era necessario invece fornire più personale e risorse finanziarie, accompagnate da un attento monitoraggio esterno sulla qualità dei servizi forniti e sulle modalità di utilizzo dei fondi.

Più finanziamenti e più attenzione alla prevenzione, senza però consentire il trasferimento di danaro destinato al pubblico verso un privato di tipo speculativo, come è accaduto proprio nelle regioni commissariate. La progressiva riduzione del numero di operatori all’assistenza, l’invecchiamento di quelli rimasti in servizio, il taglio dei trasferimenti alle regioni più deboli, hanno determinato un danno incolmabile. In particolare, il sud ha avuto difficoltà ad organizzare risposte efficaci alla domanda di salute. Esse sono state compensate, solo in piccola parte, dalla enorme disponibilità e dalla generosità di operatori abituati a lavorare con poche risorse. Disponibilità che non poteva protrarsi a lungo nel tempo.

Sprechi e buone pratiche

Non è risultato vero né credibile neanche l’assunto che la sanità pubblica produce enormi sprechi. Nel meridione, purtroppo, persiste ancora una diffusa prassi clientelare, da cui deriva una cattiva gestione delle risorse finanziarie destinate alla organizzazione del Servizio Sanitario Nazionale. Questa sciagurata pratica ha comportato un progressivo degrado dei servizi rivolti alla parte più fragile del paese. Aree che andavano aiutate e accompagnate, monitorandole con attenzione e con investimenti mirati, in grado di attivare numerose sperimentazioni organizzative avanzate. Il sud si sarebbe rivelato utile all’intero paese, proprio come hanno dimostrato i tanti operatori impegnati altrove nella ricerca scientifica avanzata e sui front line dell’assistenza. In quella stessa assistenza all’utenza che, al sud, ha retto forse solo perché meno esposta ad aspettative e ad eccessive attese.

Il mito del decentramento

Un ulteriore mito smantellato dal virus è quello della non utilità di un servizio sanitario nazionale, teorizzato dai fautori di un modello fondato sulle assicurazioni sanitarie, tipicamente americano. Un simile modello comporta un investimento residuale per le urgenze sanitarie della fascia di popolazione meno abbiente. Fascia che non può permettersi di sottoscrivere alcuna assicurazione sanitaria.

La presenza di un servizio sanitario nazionale pubblico e universale è oggi fondamentale, soprattutto in una fase post-crisi pandemica. Esso è stato riconosciuto come presidio indispensabile per affrontare proprio queste tipologie di emergenze (Di Munzio, 2019). Il SSN si è rivelato essere l’unico in grado di velocizzare le azioni di contenimento della diffusione epidemica. Esso è stato capace di uniformare le prestazioni di cura su tutto il territorio nazionale.

Si è rivelata come la sola risposta efficace, in grado anche di rassicurare un intero paese, senza implementare pregiudizi e senza favorire il diffondersi di false convinzioni pseudoscientifiche.

Dalle crisi non si esce da soli o con azioni fondate sull’egoismo, ma si esce solo se si attiva una spinta collettiva fatta di solidarietà e di azioni ben coordinate. Queste devono essere tese ad attivare quelle sinergie capaci di valorizzare l’innovazione organizzativa e la ricerca scientifica.

Walter di Munzio

Bibliografia:

  1. 2019. Di Munzio W. (a cura di): Lineamenti di Management in Psichiatria. Riorganizzazione e rilancio dei servizi di salute mentale. Idelson-Gnocchi Editore, Napoli.
  2. 2021. Di Munzio W., BENINCASA V., GALDI G.: Effetto Lockdown, storia di una pandemia tra cronaca ed esiti psicologici, Marlin Editore, Cava de’ Tirreni.
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