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Morte, sofferenza e malattia nella moderna cultura occidentale

Nella moderna cultura occidentale, è venuto meno uno spazio culturale, un pensiero che affronti tematiche sulla morte, sofferenza e malattia. Questi eventi naturali sono stati negati, rimossi dalla coscienza individuale e collettiva (Aries, 1971; Elias,1982; Carotenuto, 1996, 1997).

Morte, sofferenza e malattia

Il senso di onnipotenza sta distraendo l’uomo da una adeguata e consapevole comprensione ed accettazione della sua realtà. Ma è nello scontro quotidiano coi suoi limiti che l’uomo, ritrovandosi impreparato, soccombe e diventa fragile, ansioso, senza speranza. Ciò segna la nascita di una nuova forma di depressione culturale. Aggiungo, per meglio dire: valoriale! La morte, la sofferenza e la malattia, attraverso la censura di ogni discorso, sono diventati il nuovo tabù della nostra epoca.  L’uomo negli ultimi decenni si è reso protagonista ed artefice di grandi cambiamenti socio-culturali e di una progressiva evoluzione tecnologica. Il cambiamento, che ha investito anche la sua persona, ha generato una dilagante forma di narcisismo.

L’emergere di un pensiero di onnipotenza ha reso l’uomo sprezzante ed acritico di fronte alla sua fragilità, alla malattia ed alla sua “temporaneità” esistenziale. Lo ha privato di quelle capacità mentali che regolano le sue emozioni e i suoi pensieri verso un percorso di vita critico e consapevole. La distanza con la depressione si è notevolmente accorciata! È una nuova forma di disturbo che da tempo è stata negata e/o misconosciuta. Definita vagamente come mal di vivere o angoscia esistenziale è sostanzialmente l’esito di una costruzione immaginifica della vita e della realtà.  La demolizione di quella costruzione immaginifica ha prodotto una depressione culturale.

La malattia negata

Durante la malattia, tutti devono negare e/o minimizzare la sofferenza. Il malato infatti, “deve confidare nella guarigione e […] qualora egli non possa che arrendersi all’evidenza, è bene che mostri saggezza ed altruismo, risparmiando agli altri sofferenza, panico e disperazione” (Carotenuto, 1997). Lo stesso malato, e soprattutto quello grave, che sappia o meno, non può esimersi dal partecipare, nel tentativo di essere accettato, a quella rituale commedia. Nulla deve interferire con “l’obbligo sociale di contribuire alla felicità collettiva evitando ogni causa di tristezza o di noia[…]”  “  anche se si tocca il fondo della disperazione” (Aries,P. 1978).

L’immagine della morte e del morire nella società moderna

 Il moderno atteggiamento di rimozione e fuga dalla morte, dai morenti e dalle manifestazioni del lutto, è diverso da quanto avveniva nei secoli scorsi.  Allora prevaleva una sostanziale accettazione della morte e del morire.

Con l’imporsi dello sviluppo scientifico e tecnologico, va sempre più diffondendosi un’immagine razionale della vita e della morte. Quest’ultima è intesa non più come evento misterioso ed enigmatico, ma fenomeno biologico che può essere spiegato e reso comprensibile.  I sistemi religiosi ultraterreni sono stati progressivamente sostituiti da forme secolari di fede: fede nel progresso, nello sviluppo,nella crescita illimitata”. Fino alla credenza di un “Io” che pensa sé stesso come unica istanza di riferimento” (Elias, 1985). Il vuoto individualismo si è nutrito di assurde fantasie di immortalità.

La nostra cultura infatti, è fondata e si regge su principi e prescrizioni intorno alla “necessità” di essere in salute e in forma. Analogamente esige essere giovani, felici, liberi da ogni condizionamento.

La medicina, viene a costituirsi come nuovo sistema di fede, per attenuare le nostre angosce. Con il procedere della medicalizzazione della vita, il malato si rivela come trasgressore dell’ordine medico. La sua sofferenza è la condanna per la disubbidienza; infatti, se la vita e la mia realizzazione nell’aldiquà sono il bene assoluto, la malattia e la morte diventano sinonimo del male. “Se uno muore di infarto, è perché non ha corso abbastanza, ha fumato e mangiato troppo (…); se ci viene un cancro alla pelle, è perché ci siamo esposti al sole (…). È colpa nostra, sempre (Bensaid, 1988) “Si afferma una spinta pericolosa a considerare fenomeni fisiologici, per esempio la menopausa e la vecchiaia, come condizioni patologiche richiedenti misure terapeutiche” (Berlinguer, 1994).

La scienza medica non promette la vita dopo la morte, ma assume la malattia e la morte come limiti da superare, nemici da vincere hic et nunc.

Morte e malattia: negare il “limite” umano

La mancanza del confronto con l’idea del proprio limite, getta l’uomo moderno nell’impossibilità di rappresentarsi la fine. Emergono pertanto nuove fantasie di immortalità, cui egli affida la speranza di poter oltrepassare il limite umano, “che non è solo la morte, ma il prolungamento artificiale della vita, il mito dell’eterna giovinezza, il rifiuto ostinato ed infelice della vecchiaia, l’incapacità di tollerare il dolore […] (Galimberti, 1997).

L’elevato livello di individuazione, il controllo di ogni affetto, emozione e l’isolamento limitano le capacità degli individui di sviluppare un sentimento di empatia.

 Così che “la reticenza, l’assenza di spontaneità nell’esprimere la propria compassione […] al nostro stadio di civilizzazione, si manifestano in tutte quelle occasioni che richiedono l’espressione di una forte partecipazione emozionale” (Elias, 1985).

Il rapporto medico-paziente nella malattia

In tale condizione culturale, appare difficile il compito del medico che, nell’assistere un malato cerca di fornire al paziente un’informazione realistica.

Cionondimeno si può comunque ritenere, che ogni paziente, e soprattutto quello oncologico, desideri sentirsi comunicare che non esiste alcun pericolo per la sopravvivenza. Pertanto diventano preminenti altre aspettative, a cominciare da quella di un dialogo in seno al quale il paziente stesso possa giocare un ruolo attivo. Uno spazio adeguato per essere ascoltato, per manifestare liberamente dubbi, incertezze, paure, speranze. Il paziente vuole comprendere ed essere compreso. Ogni medico dovrebbe avere la piena consapevolezza di come quegli sia in grado di percepire l’effettiva partecipazione ai suoi problemi, farsi “contenitore” delle angosce.

Costituire una corretta relazione col paziente, significa farsi carico dell’altrui sofferenza e aiutare ad affrontare consapevolmente la malattia, la sofferenza e la morte.

Enza Maierà

Bibliografia

  1. Aries, P., “Storia della morte in occidente”, Rizzoli, Milano, 1978.
  2. Bensaid, N., “Le illusioni della medicina”, Marsilio, Venezia, 1988;
  3. Berlinguer, G.,Etica della salute”, Il Saggiatore, Milano, 1994.
  4. Carotenuto, A., “Le lacrime del male”, Bompiani, Milano, 1996; “L’eclissi dello sguardo”, Bompiani, Milano, 1997.
  5. Elias, N., “La solitudine del morente”, Il Mulino, Bologna, 1985.
  6. Galimberti, U., “Il vero limite della vita”, La Repubblica, 7 maggio, 1997.

Foto: Envato Elements

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