L’articolo analizza il fenomeno delle Challenge che circolano sul Web. Esse sono delle sfide, proposte a bambini e adolescenti, che possono avere un esito mortale.
Epidemia sul Web
La pandemia ha ulteriormente contribuito a confinare migliaia di bambini e adolescenti davanti allo schermo di un computer. L’uso del web è diventato a sua volta epidemico.
Depressione e suicidio sono strettamente collegati nell’immaginario collettivo. La depressione richiama una idea di disperazione e di perdita di speranza che rende comprensibile la possibilità di togliersi la vita.
Molto più complicato comprendere i suicidi di molti giovani, e perfino di bambini, che compaiono sempre più frequentemente nella cronaca. In questi casi non abbiamo a che fare con la depressione ma con la frequentazione di pericolosi siti web nei quali circolano le cosiddette “challenge”. Esse sono le sfide, non solo virtuali, a cui bisogna sottoporsi per essere degni di quel determinato gruppo o per poter avanzare alla tappa successiva di giochi che richiedono azioni sempre più pericolose.
Le Challenge nel Web
Una challenge ha provocato la morte della piccola Antonella Sicomero, morta soffocata dopo una sfida su TikTok. La sfida social si chiama “Blackout challenge” oppure “shocking game”: lo scopo di questo gioco è quello di provare su di sé gli effetti di una momentanea privazione di ossigeno.
Nel 2018, a Tivoli, vicino Roma, un quattordicenne ha perso la vita allo stesso modo. Un bimbo di 11 anni di Napoli si è lanciato nel vuoto a causa di un’altra challenge collegata ad un personaggio chiamato Jonathan Galindo. La sfida comincia con una richiesta di amicizia da profili che rispondono al nome di Jonathan Galindo. A tale richiesta segue un messaggio privato, in cui viene inviato un link che propone di entrare in un gioco. Il gioco prevede un susseguirsi di sfide e “prove di coraggio” che sfociano sovente nell’autolesionismo.
La “Skullbreaker Challenge”, invece, è una sfida social in cui la vittima è invitata a saltare in mezzo a due mentre un terzo riprende con il telefonino ma al momento del salto le si fa un sgambetto per farla cadere. Ne conseguono lesioni fisiche anche molto gravi. Quest’anno sui social network è andata anche di “moda” la “Benadryl Challenge”, una sfida ad assumere un farmaco antistaminico che potrebbe provocare allucinazioni. Così è morta la quindicenne Chloe Phillips di Oklahoma City (Usa). Chloe è andata in overdose: il Benadryl ha forti effetti collaterali in caso di dosaggi eccessivi.
Web e morte
Il Web come fonte e causa di morte: un fenomeno largamente sottovalutato da genitori, insegnanti e soprattutto da coloro che dovrebbero vigilare sulla circolazione delle informazioni sui social. Va detto che il fenomeno delle challenge è solo la punta di un iceberg molto più voluminoso. Chi lavora con giovanissimi adolescenti apprende con sgomento di gruppi WhatsApp organizzati all’interno della classe frequentata nei quali ci si sfida a dimagrire il più possibile: gare segrete che generano e moltiplicano evoluzioni verso l’anoressia.
Oppure strani gruppi coreani che attraggono sempre più adolescenti italiani e li chiudono in circuiti irraggiungibili e incomprensibili per gli adulti.
L’attrazione e le Challenge sul Web
C’è da chiedersi perché gli adolescenti e i bambini siano così sensibili a questi pericolosi richiami. Quale filo invisibile li trascina verso un baratro che in taluni casi diventa mortale?
Un possibile interpretazione di questi fenomeni è che il Web stia diventando il principale punto di riferimento per la costruzione della propria personalità. Mancano sempre più spazi per stare insieme, giocare, parlare, discutere. Mancano occasioni per confrontarsi con i genitori, i quali sempre più distratti e immersi in mille pensieri, si occupano poco della crescita emotiva dei propri figli.
I bambini crescono nel Web, ne assorbono i meccanismi e si piegano ad essi. Il loro mondo diventa ciò che vedono sullo schermo e ciò che vivono insieme ad altri mediante lo schermo. Se si aggiunge il fatto che la loro tenera età impedisce di separare, in modo chiaro, ciò che è vero e concreto da ciò che è frutto di fantasia, si può comprendere che il “mondo social” rischia di diventare l’unica realtà in cui si cresce e si cerca di trovare un proprio spazio di vita.
Da qui la possibilità che i bambini più fragili, più soli, meno capaci di distinguere gioco e realtà, siano preda della sfida del momento e ne restino risucchiati. Il bisogno di conferme che non arrivano dal mondo reale diventa talmente pressante e necessario da generare gli orrori di cui stiamo parlando.
Sondaggio per un suicidio
Nel 2019, in Malesia, un’adolescente che si è organizza un sondaggio su Instagram in cui chiedeva ai suoi follower se avesse dovuto continuare a vivere oppure no. Il 69% degli intervistati avrebbe votato per il suicidio. A quel punto la ragazza si è buttata dal tetto di un palazzo.
Bisogno di identità, solitudine, immaturità, paura del futuro, paura di perdere qualche “mi piace” di Facebook o Instagram sono le nuove leve che portano al suicidio di giovanissime vite.
Che fare?
Il ruolo della prevenzione diventa in questo caso fondamentale. Informare le famiglie organizzando incontri nelle scuole o sul web, educare i ragazzi ad un uso più accorto dei social, prestare attenzione alla quantità di tempo che vivono immersi nel mondo virtuale. Soprattutto riscoprire e recuperare spazi per stare insieme, giocare insieme, discutere, confrontarsi, creare, inventare.
Il futuro dei nostri giovani passa attraverso la riscoperta di un valore importante: stare con gli altri, frequentarsi dal vivo, respirare il contatto umano e sentirlo come fonte ineliminabile della propria formazione e della propria identità.
Gino Aldi
Bibliografia
- Aldi G, Costruttori di speranza, Enea Editore
- Aldi G., Menti iconiche e patologia adolescenziale, Rivista Telos, (N.1/2021),
Sitografia
- https://www.ilprimatonazionale.it/cultura/morire-di-social-challenge-180517/